Spesso la cosiddetta Storia dell’Arte non è solo costituita da grandi nomi, ma trova la sua parte forse più interessante nelle piccole realtà e in quegli artisti che ne rappresentano i protagonisti più genuini: Urbania merita in tutto ciò un posto di rilievo in virtù anche della continua riscoperta di preziosi tesori andati a volte e per troppo tempo dimenticati.
E’ questo il caso di un dipinto, attualmente custodito nella sede del Museo Diocesano, raffigurante il S. Luca evangelista che dipinge la Vergine.
La tela di grandi dimensioni, con i suoi 270×162 cm., si mostra oggi nella precarietà a cui purtroppo l’incuria e il trascorrere del tempo l’hanno condotta; ma l’eccezionalità di un quadro simile è ancora rintracciabile sia nella scelta della singolare iconografia, sia nella mancanza apparente di notizie che permettano di chiarire l’identità dell’autore e la sua originaria collocazione.
A tutto ciò si devono aggiungere le condizioni del suo ritrovamento, avvenuto intorno alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, all’interno della Cattedrale dedicata a S. Cristoforo martire.
Il supporto in tela era infatti stato riutilizzato come rinforzo posteriore per un’altra pala, quella del Sant’Ubaldo vescovo, ancor’oggi qui visibile sulla parete destra dell’altare maggiore: un recupero questo avvenuto con molta probabilità in occasione dei rifacimenti che interessarono la struttura ecclesiastica stessa tra la seconda metà del XVIII e la prima del XIX secolo (1). Ma la scelta di raffigurare il Santo evangelista, a cui un’antichissima leggenda di origine orientale attribuisce la fama di primo pittore cristiano e unico ritrattista della Vergine, sembra apparentemente non essere connessa a nessuno dei numerosi edifici religiosi che al tempo erano presenti nella località metaurense.
Osservando bene si può notare che l’impostazione proposta per l’inedito manufatto segue in realtà quella canonica già dettata in gran parte da altri celebri esempi diffusi nella nostra Penisola e risalenti in particolar modo ad un periodo ben limitato compreso tra la seconda metà del ‘500 e la prima del ‘600, cioè in quel momento in cui i nuovi dettami voluti dalla Chiesa riformata prendono il sopravvento anche in campo artistico auspicando il ritorno ad un linguaggio semplice, diretto e coinvolgente (2).
La nostra tela inoltre mostra una delle tematiche più utilizzate del vocabolario iconografico cristiano, ovvero l’apparizione della Vergine all’umanità, evento miracoloso qui accentuato dalla scelta decisamente “teatrale” operata da parte dell’autore di inserire nubi che fungono da immaginaria cornice allo sfondo.
La scena, ambientata in un esterno, mostra in primo piano la possente figura del Santo seduto su di uno sgabello in legno ornato da un’ampia voluta che pone vaghe reminescenze con arredi tardo cinquecenteschi, mentre la parte inferiore del corpo posta di tre quarti è avvolta da un morbido panneggio che si modella sulle ginocchia piegate, ricadendo fino alle caviglie; l’immobilità che sembra pervadere il personaggio viene tradita solo dall’impercettibile movimento con cui Luca si avvicina alla tela, intento ad appoggiare la punta del pennello sulla sua superficie.
Il raggiungimento più alto emerge però chiaramente nei tratti del bellissimo volto, il cui sguardo è completamente assorto nell’immagine che sta riproducendo: gli occhi di colore chiaro marcati dal rigonfiamento della palpebra inferiore, il naso pronunciato che si stacca nettamente dalla fronte e le labbra leggermente dischiuse, mostrano il rapimento spirituale in cui è coinvolto avvicinandolo non solo ad un prototipo tradizionale con cui si era soliti raffigurare evangelisti e apostoli, ma ponendo anche vaghe reminescenze con certe figure che contraddistinguono ancora un “fare” in parte legato a retaggi tardo manieristi. Il ritratto incompleto della Vergine che tiene tra le proprie braccia il Bambino ha invece il compito di duplicare la visione, creando un sottile gioco di rimandi tra immagine reale e immagine fittizia; al tempo stesso questo risulta essere anche l’unica testimonianza di quanto è andato perduto nella zona superiore della pala a causa della decurtazione subita dal supporto al momento del riadattamento.
In questo punto è possibile ancora notare scure e pesanti nubi che sorreggono le figure sacre concentrando l’attenzione esclusivamente sul dialogo reciproco che intrattengono con San Luca.
La mancanza purtroppo del volto di Cristo e di buona parte di quello della Madonna limita una lettura unitaria: la testa leggermente inclinata della
figura femminile che richiama l’attenzione su di sé, la sua mano destra che cinge il fianco mentre con l’altra sfiora quella del Figlio, sono le uniche tracce rimaste di un corpo che doveva essere avvolto dal grigiore della nuvola sottostante e caratterizzato da una veste dai colori tipicamente mariani.
Affiancano infine l’evangelista due figure angeliche che sembrano parlare entrambe un linguaggio pacato e armonioso, fatta eccezione per sottili sfumature che si colgono nella trattazione dei loro volti e dei gesti: se il primo angelo sulla sinistra assume tratti quasi zuccareschi nella sua ideazione ma non evidentemente nella concreta realizzazione che tradisce mediazioni locali ad un tardo stile manierista, il secondo ostenta lineamenti più morbidi e delicati di un volto quasi femmineo che non dimentica ancora una volta accenni alla maniera bolognese soprattutto nello sguardo languido, nella smorfia labiale, in quella resa cromatica pastosa della carnagione e degli abiti.
Conclude il tutto la presenza di due Libri sacri, che richiamano esplicitamente i Vangeli lucani, poggiati su di un tavolo e del simbolo per eccellenza dello stesso evangelista, il Vitello.
Di fronte ad un’opera di tale complessità, l’attribuzione avanzata al momento del distacco e del restauro conservativo nei confronti di un pittore come Simone Cantarini potrebbe in realtà aprire a nuove ipotesi che coinvolgono altri protagonisti di un momento artistico irripetibile che investe appieno l’ambiente metaurense tra la fine del XVI e l’inizio del secolo successivo.
E’ evidente che a chi ha dettato tale nome non sono sfuggiti alcuni particolari che potrebbero richiamare il lessico del tutto seicentesco del Pesarese; attestare ciò con assoluta certezza è però un azzardo non da poco. Lo sfondo nebuloso che richiama le grandi composizioni tonali, la languida delicatezza del volto della Madonna, la manierata posa di Luca, tutto parla di un repertorio che appare legato a quell’idea di essenziale chiarezza di cui il Cantarini può essere definito il più importante rappresentante in terra marchigiana, ma non l’unico (3).
Ciò che di sicuro si può riconoscere allo stato attuale in cui versa l’opera, è una mano capace di assimilare e sintetizzare caratteristiche tratte da fenomeni artistici differenti che si sono avvicendati sul territorio, senza dimenticare con ciò l’importanza di quell’ampia circolazione di soluzioni iconografiche codificate e pervenute nelle botteghe durantine tramite stampe, disegni e incisioni che hanno favorito per secoli il diffondersi di modelli comuni.
La questione riguardante invece la provenienza del San Luca coinvolge nello specifico la motivazione che ha condotto a riutilizzare il materiale nell’edificio ecclesiastico più importante della città.
Purtroppo, tra le numerose Visite pastorali custodite nell’Archivio Diocesano urbaniese, nulla è finora emerso che potrebbe giustificare la collocazione originaria della pala su uno degli altari della Badia o testimoniare almeno la presenza di un culto specifico nei confronti dell’evangelista (4).
Bisogna anche ricordare però l’esistenza a Casteldurante di un’antichissima Confraternita legata alla chiesa di S. Caterina e che almeno fino a buona parte del XVII secolo ha annoverato tra gli appartenenti alcuni dei più eccellenti e riconosciuti artisti in ambito locale (5).
Anche in questo caso le notizie raccolte non hanno permesso di risalire ad un rapporto diretto tra il dipinto e l’edificio in questione nonostante il tema raffigurato si leghi in maniera quasi naturale all’idea di celebrazione di un mestiere come quello del pittore che ha, appunto, accomunato per secoli la gran parte dei rappresentanti di tale istituzione cittadina.
Vi sono infine altri due punti da menzionare e che potrebbero coinvolgere appieno la questione sulla provenienza del manufatto: il primo riguarda l’esistenza ancor’oggi ad Urbania di una Fiera dedicata proprio al S. Luca che risulta essere anche l’unica testimonianza di un culto forse dimenticato nel tempo e a lui dedicato; l’altro riguarda la menzione, tra le carte del famoso inventario Della Rovere del 1631, di un’opera singolare collocata in una delle sale del palazzo durantino e raffigurante il “[…] san Luca che copia l’immagine della Santissima Vergine et il ritratto di Rafaelle d’Urbino” (6). Il tutto sembrerebbe richiamare quasi certamente la presenza di una copia di un celebre dipinto originale conservato ancor’oggi presso la sede dell’Accademia romana di S. Luca (7) e che vede rappresentato non solo il Santo pittore, ma anche un personaggio i cui tratti del volto secondo la tradizione sarebbero associabili a quelli del Sanzio (8).
Fino a che punto però sia possibile rintracciare un’affinità seppur solo iconografica tra i due manufatti, quello custodito nel Museo urbaniese e l’altro rintracciato nell’inventario, il tutto è reso ancora più complicato dalla mancanza di carte che permettano di seguire proprio la sorte del dipinto roveresco che non verrà menzionato né tra quelli trasferiti a Firenze successivamente alla devoluzione del Ducato di Urbino, né tra quelli venduti nelle tante aste che si terranno nella stessa località urbaniese durante la metà del XVII secolo (9).
Se poche sono quindi le certezze su cui oggi si possono effettivamente basare le più diverse e affascinanti ipotesi, tante sono invece le speranze di poter ridare attraverso delle ulteriori ricerche una propria identità ad uno dei maggiori e forse più interessanti esempi di un’arte, tanto vivace quanto longeva, come quella metaurense.
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