L’immagine femminile nell’arte: l’incanto della passione

Donna e arte: un legame questo tra più discussi dalla critica di ogni tempo, capace come pochi altri di incuriosire e coinvolgere questioni psicologiche e sociali nel profondo. L’attualità dell’argomento si è manifestato sempre più negli ultimi anni attraverso la progettazione e la realizzazione di numerose mostre1 che hanno permesso di approfondire le ragioni, più o meno soggettive, dalla quale nasce la cosiddetta “opera d’arte”. L’interesse è completamente rivolto ai racconti della quotidianità, di episodi di vita reale che vedono protagonisti i grandi artisti, amanti, modelle e che vengono qui riletti attraverso quel pathos che amplifica i sentimenti e mostra la sincerità dei rapporti umani così come solo la vera Arte può fare, ovvero nella sua natura più pura.

Per una corretta analisi, in realtà, si potrebbe addirittura considerare un arco cronologico e tematico talmente ampio da risalire ad alcune delle più antiche rappresentazioni di soggetti femminili. Mi riferisco in particolar modo a quelle raffigurazioni, come ad esempio la celebre Venere di Willendorf (22.000 a. C. circa), generalmente in pietra appena abbozzata e caricate nei loro attributi sessuali, raffiguranti divinità propiziatrici di fertilità. La questione da affrontare è però differente e non coinvolge esclusivamente il mondo femminile e la sua immagine nel corso dei secoli: si concentra in particolar modo su un sentimento per eccellenza come l’amore che pervade l’aspetto semantico di determinate opere. Per farlo, ho voluto proporre brevemente la storia di due artisti in grado di segnare un’epoca, accomunati dal fattore temporale e dallo scenario nel quale si svolgono le loro carriere, e soprattutto quella di due donne dall’esistenza tutt’altro che semplice, troppe volte dimenticate. Due ragazze dal carattere differente, entrambe però destinate ad essere rese immortali dai loro uomini in quei ritratti capaci di indagare la loro più segreta intimità. La prima, Alice Prin, passata alla storia con lo pseudonimo di Kiki de Montparnasse (Chatillon-sur-Seine 1901 – Sanary-sur-Mer 1953), il cui corpo restò per decenni il prediletto da numerosi artisti e riconosciuta come una delle protagoniste assolute della vita parigina dei primi decenni del XX secolo, molte sono le parole spese in biografie a lei interamente dedicate; di nazionalità francese è anche l’altra protagonista, la pittrice Jeanne Hébuterne, resa ingiustamente più celebre dal doloroso ultimo gesto che dal proprio talento. Eppure se esiste qualcuno che è riuscito ad intrecciare le fila di questi due destini, è un italiano, o meglio, un livornese come Amedeo Modigliani: l’una affascinata dalla sua personalità, l’altra amante sfortunata, condivideranno infatti un pezzo della sua breve vita. Lo sfondo è la Parigi degli anni ’20 del ‘900. L’impressionismo aveva ormai aperto le porte ad un nuovo modo di concepire e “sentire” il mondo; la Grande Guerra aveva permesso di conoscere quella città anche ad intellettuali d’oltreoceano. La sua eterna bellezza ispira artisti provenienti da ogni angolo del mondo, accogliendoli in una metropoli in cui il progresso e la joie de vivre dovevano apparire tra le caratteristiche più evidenti. Sarà nel vivace quartiere di Montparnasse, che la giovane Kiki diverrà ben presto una delle donne più ricercate della mondanità parigina, grazie alla sua vitalità e a quel gusto per la provocazione del tutto genuino. Donna consapevole del suo fascino, modella, prostituta, pittrice e attrice, riuscirà perfino a pubblicare a soli 29 anni un libro contenente le sue memorie3, Souvenirs (1929), curato nella sua prima edizione niente di meno che da Ernest Hemingway. Musa ispiratrice dell’eccentrico artista giapponese Foujita, la consacrazione definitiva arriva con gli intensi scatti realizzati dal fotografo Man Ray: incessante sperimentatore, amante egli stesso della provocazione più raffinata, giunto nella capitale francese nel luglio del 1921, l’artista condividerà con Kiki un percorso di crescita professionale e personale travagliato che durerà ben 6 anni.

 

                                        Fig. 1 – Man Ray, Violon d’Ingres, 1924, Getty Museum, Los Angeles.

 

E’ da quelle celebri istantanee che possiamo, forse ancor più delle testimonianze indirette, trarre il carattere di Alice. Definirla infatti semplicemente come la fonte di ispirazione di Ray è limitativo; che si tratti invece dell’oggetto principale del suo desiderio, non solo artistico, questo è ben evidente già dal celebre nudo presente nel Violon d’Ingres (Fig. 1). L’immagine mostra una donna dal mezzo busto scoperto, reso più casto dalla scelta di porla rivolta di spalle rispetto alla visuale dell’osservatore; la stoffa che nasconde ben poco delle sue prorompenti forme, il turbante indossato, il volto di tre quarti che si intravede appena, contribuiscono a delineare un corpo fisicamente presente e al contempo un’identità sfuggente, resa tanto enigmatica da quell’aura di indefinitezza. Avvalendosi dell’innovativa tecnica di stampa a contatto, il fotografo americano impressiona sulla schiena femminile quei due segni ad effe tipici del violoncello, o meglio, di quello strumento a corda di origine medievale definito propriamente come “Viola d’amore”. Pensare però a questa semplice associazione è a dir poco limitativo soprattutto se ci si ritrova di fronte ad uno dei maestri indiscussi di quel surrealismo artistico dove l’apparenza svanisce di fronte al significato più profondo, si trasforma in mezzo di interrogazione dell’Io. Bisogna infatti ricordare che il termine “Violon d’Ingres” veniva comunemente utilizzato al tempo per indicare un hobby, così come per tutta la vita Man Ray definirà l’arte fotografica. Quale soggetto meglio di Kiki poteva rappresentare quella passione amorosa capace di scardinare la realtà già esistente e al tempo stesso trasportare l’osservatore in un mondo onirico, trascendentale?! La donna diviene un essere mutante, capace di mostrarsi nella sua intimità, pronta a trasformarsi in strumento agli occhi dell’innamorato. Se Alice verrà ben presto dimenticata sulla soglia dei 50 anni, nel momento in cui la sua ineffabile bellezza l’aveva ormai completamente abbandonata, il destino si rivela ancora più crudele per Jeanne Hèbuterne (Meaux 1898-Parigi 1920), personalità fondamentale nella vita di Modigliani.

 

                             Fig. 2 – Amedeo Modigliani, Ritratto di Jeanne Hébuterne, 1919, collezione privata.

 

Le testimonianze tramandateci ricordano di una ragazza appena diciannovenne al momento dell’incontro con il pittore (1917), dolcemente taciturna, di grande bellezza e caratterizzata da quella disarmante malinconia che accompagnerà alcuni dei ritratti più belli di Modì: la sua personalissima tecnica pittorica, maturata in breve tempo, basata su sinuosità e morbidezza nelle forme e incisività e durezza nelle linee, potrebbe essere sicuramente stata suggerita proprio dal fascino e dai lineamenti della sua giovane amante. Straordinario è il confronto tra le foto d’epoca che mostrano lo sguardo magnetico di Noix de coco (soprannome assegnato a Jeanne per i suoi profondi occhi azzurri e i lunghi capelli scuri) e le due “mandorle” vuote dei suoi ritratti che traspongono quello stesso sguardo al di fuori di briglie temporali. L’immensa capacità espressiva, così lontana dalle altre donne parigine che affollavano abitualmente studi di artisti, è visibile in uno dei più famosi dipinti datato al 1919 (Fig. 2). Sulla tela di piccole dimensioni (55×38 cm.) spicca il suo viso ovale e allungato, i lunghi capelli in parte raccolti sulla fronte che permettono di concentrare quasi interamente l’attenzione su un’espressione fiera ed intensa.

 

                        Fig.3- Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne con la collana, 1917, collezione privata.

 

I grandi occhi di un colore scuro, tanto lontani dagli originali, sembrano raccontare di una donna dal volto sicuro di chi ha vissuto, e continua a farlo, di passione. Quanto diversa può essere la sensazione che suscita il confronto con un’altra immagine di Jeanne risalente a soli due anni prima! In questa (Fig. 3) ritroviamo già l’uso di linee nette e marcate, ma la tavolozza con i suoi colori utilizzati in contrasto (freddi per la donna, più caldi per lo sfondo) e il sentimento di sottile inquietudine che la pervade, relega il tutto in un’altra dimensione. Jeanne è qui raffigurata in un luogo e in un tempo indefinito, con il volto inclinato su di un lato, lo sguardo ravvivato da grandi occhi a mandorla di un colore azzurro intenso; la collana, unico segno distintivo, richiamerà la stessa tonalità. L’occhio in Modì appare come il fulcro dell’intera raffigurazione, specchio dell’anima, così come teorizzato dai simbolisti, rivolto verso l’interno e mezzo per eccellenza di introspezione. Un luogo comune ricorda che dietro ogni grande uomo vi è sempre una grande donna: nel caso di Jeanne sarà proprio questo a segnare la sua condanna. Offuscata nella sua attività di pittrice dalla grandezza del compagno, madre della primogenita Jeanne, rimase accanto al suo uomo durante gli ultimi giorni di agonia; si suiciderà lanciandosi da una finestra, incinta di otto mesi, il giorno dopo la morte di Amedeo. Sulla sua lapide troneggia la frase “Devota compagna sino all’estremo sacrificio”. In tutto ciò, siamo ancora certi di voler definire l’arte senza conoscere i meccanismi del tutto umani che la governano?

                                                                                                                                                                                                                              Maria Ruggiero                                                                                                                                                                                     ruggieromariadonata@gmail.com

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