L’idea di poter indagare l’apparato simbolico, spesso sotterraneo, legato al mondo antico non solo può essere stimolante di per sé, ma se a ciò si aggiunge l’eventualità di ripercorrere una parte importante della storia dell’umanità e della sua spiritualità l’obiettivo risulta essere ancora più interessante. Può infatti accadere che ad un semplice termine quale Terra Mater, dalla traduzione quasi immediata, vengano associati alcuni dei più remoti rituali direttamente legati al ciclo di vita/morte e al tempo stesso si possa far risalire la maggior parte delle più antiche raffigurazioni a noi pervenute; difficile è al contrario individuare il momento in cui l’uomo decide di dare una definizione precisa ai contenuti che finora si erano rivelati esclusivamente attraverso la magia. La più antica testimonianza in tal senso è offerta da una statuetta in pietra risalente a più di 22mila anni fa, comunemente riconosciuta come Venere di Willendorf, documento eccezionale anche e soprattutto da un punto di vista antropologico. Vi è infatti qui racchiuso, nell’insistente deformazione di certi attributi femminili (fianchi e seni) e nella mancanza di realismo nella resa del corpo (tratti del volto inesistenti, arti accennati), tutto quel potere magico-rituale di fertilità e fecondità che da sempre viene attribuito alla donna; un filo conduttore questo che si evidenzierà ancor più nella visione cristiana attraverso l’immagine di Eva, progenitrice per eccellenza, e della Vergine, prescelta per accogliere il mistero dell’Incarnazione. D’altro canto, non si tratta questa di una testimonianza isolata. Diverse sono le statuette del tutto simili alla Venere austriaca, in pietra, osso, avorio o steatite e alte non più di 15- 20 cm., rivenute soprattutto in Francia e in Italia settentrionale, risalenti al Paleolitico superiore (ca. 40 mila-15 mila a.C.). Se l’atto religioso è da sempre presentato come un momento di indagine preziosa per comprendere a fondo i meccanismi che regolano la civiltà che l’ha prodotto, in tal senso il culto della Dea Madre segna uno spartiacque privilegiato tra un periodo storico, Paleolitico inferiore, e l’altro, Paleolitico superiore, dove la potenza creatrice assume delle proprie specifiche connotazioni; si dovrà però attendere il Neolitico, in concomitanza con l’avvenuta sedentarietà delle tribù e la nascita delle prime società agricole, affinché il culto in questione raggiunga una diffusione massima. Sono state individuate in tutte le più antiche popolazioni numerose divinità che, modificando il loro nome ma mantenendo sostanzialmente le stesse peculiarità, possono essere ricondotte alla progenitrice in questione. E sarà ancora in previsione di una maggiore articolazione e complessità del sistema religioso che quelle prime raffigurazioni che mostrano la Dea Madre come un essere androgino e bisessuato, lasciano gradualmente il posto ad una serie nutrita di personalità pronte ad incarnare i tratti che originariamente confluivano in una sola: in tal modo ritroveremo personificazioni dell’amore sensuale (Ishtar, Astarte, Afrodite) o legate alla fertilità dei campi (Demetra/Cerere e Persefone/Proserpina) o ancora alla caccia (Artemide/Diana); secondo una teoria abbastanza discussa proposta da Stephen Benko, si vorrebbe addirittura riconoscere nelle Madonne nere delle estreme propagini di tale venerazione il che sarebbe del tutto in linea con le norme tipiche dell’inculturazione messe in atto dagli evangelizzatori cristiani. Se i primi esempi in tal senso si riferiscono all’area Medio- Orientale, In Europa Occidentale invece, la Grande Dea veniva generalmente identificata nelle personificazioni di Persefone, Teti e Atena in Grecia; a Roma con la triade di Cerere, Venere e Persefone. Di fronte a questa complicata e variegata discendenza, come spesso accade, è l’arte a proporsi da mezzo privilegiato di interpretazione: attraverso il valore utilitaristico implicito che la contraddistingue in quanto prodotto del lavoro umano, essa diviene portatrice e chiarificatrice di determinati significati.
Ed è a tale visione essenzialmente pratica dell’elemento religioso che possono essere ricondotte una serie di altre raffigurazioni litiche provenienti dalla civiltà Cretese (II e I millennio a.C). Ai primi semplici ‘idoli’ di sesso femminile, come le celebri statuette a forma di violino che evidenziano petto e bacino, si affiancano ben presto immagini più facilmente identificabili. Di straordinaria fattura è, ad esempio, la statua in ceramica smaltata (34,5 cm.) conservata nel Museo archeologico di Iraklion (1700-1600 a.C.), proveniente dal palazzo di Cnosso e raffigurante una tipica divinità ctònia (Fig. 1).
Fig. 1 Dea dei serpenti, Museo archeologico di Iraklion, 1700-1600 a.C.
L’abito a falde ricadenti arricchito con un elemento in stoffa più pesante a forma di ‘sella’, il corpetto stretto in vita che comprime e mette in risalto i seni, potrebbero dire poco o nulla sull’identità in questione; saranno altri i segnali che permettono di identificarla quale dea: i serpenti che stringe tra le mani, innanzitutto. Il valore simbolico e antropopaico che esprime l’animale è legato al suo rapporto diretto tra sottosuolo e superficie, ma anche al ciclo di rigenerazione che si presenta costantemente in natura. Il volto, accuratamente definito con grandi occhi e labbra serrate, ha un espression e stereotipata, severa e impassibile così come doveva ritenersi congeniale ad un essere superiore; in testa un copricapo sul quale fa capolino un gatto, animale quest’ultimo legato ad un’altra divinità zoomorfa di origine però egiziana, Buba, segnale del risaputo legame tra le due fiorenti culture.Con l’avvento della società moderna cambiano le esigenze e una forma di razionalismo più specifico viene quasi naturalmente accompagnato dall’affermarsi della scienza e della tecnologia; resta però quel fascino per l’antico culto misterico e per la mitologia che interesserà, in particolar modo, alcuni esponenti dell’arte ottocentesca, raffinati esteti, che esaltano nelle loro forme un agognato ritorno all’epoca d’oro del Rinascimento, inteso come periodo di massima fioritura della civiltà occidentale. Questo cambiamento interpretativo che coinvolge l’aspetto del “magico” non potrebbe, a mio parere, essere meglio testimoniato da un dipinto di bellezza e raffinatezza sublime come l’Astarte Syriaca, opera realizzata tra il 1875 e il 1877 dall’artista inglese Dante Gabriel Rossetti (1828-1882). Nella pienezza della sua adesione alla corrente pre-raffaellita, la donna (Fig. 2) è intesa e presentata dal pittore come essere sensuale, di una sensualità carnale, e al tempo stesso idealizzato, riprendendo in tal modo una contraddizione insita già in quell’ideale quattrocentesco di bellezza femminile; il colore utilizzato sembra invece richiamare esplicitamente quello tonale tipico dei grandi maestri veneti del ‘500, reso ancora più vibrante e carico dall’uso effettivo di poche e scure tonalità che si sfaccettano sotto la luce calda che investe le protagoniste. Ben poco, inoltre, c’è di idealizzato nella raffigurazione del soggetto: ci ritroviamo di fronte ad un ritratto reale della bella Jane Morris, moglie di quel William Morris creatore della “Arts and Crafts exibition Society” (1888), un’associazione di Arte e Mestieri che si prefiggeva di conciliare la produzione industriale con quella artistica, garantendo ad ogni oggetto la propria valenza estetica. Ma per una volta, lascio che sia proprio l’autore a parlare, nella sua pur latente gelosia, del frutto delle proprie speculazioni mistiche, teologiche e artistiche: si tratta di alcuni versi (1877) che hanno la funzione primaria di accompagnare, commentare e descrivere la composizione stessa, toccando vertici di vero e puro lirismo.
Fig. 2 – G. D. Rossetti, Astarte Syriaca,1875-77, Manchester City Art Gallery.
Mistero: guarda! Al centro fra sole e luna
Astarte Syriaca: Venere Regina
prima che Afrodite fosse. In argentea lucentezza la sua duplice cintura avvolge la grazia infinita
di beatitudine della quale cielo e terra nutrono la loro comunione:
e dallo stelo reclino del suo collo pendono labbra amorose e occhi che avezzano imperiosi
il battito dei cuori della melodia dominatrice delle Sfere. Portatori di torce, i suoi dolci ministri obbligano
Tutti gli angeli della Luce, i Troni, al di là di cielo e mare a farsi testimoni del volto della Bellezza:
quel volto del penetrante incantesimo d’Amore
amuleto, talismano e oracolo mistero al centro tra luna e sole.
Maria Donata Ruggiero
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